martedì 23 ottobre 2007

Le anime della sinistra

Il popolo della sinistra c'è, è grande, è molto più intelligente di tutti quelli che lo criticano e lo disprezzano. Ci avevano detto: ma come fate a fare una manifestazione che non è a favore del governo e non è contro il governo? Ci avevano detto: siete dei burocrati visionari, la manifestazione è impossibile. Invece noi eravamo un milione e la manifestazione è stata non solo possibile, ma è stata una delle più grandi manifestazioni di piazza degli ultimi anni. Perché? Perché i nostri critici non avevano capito che esiste un popolo della sinistra, che pensa, che vuole fare politica, che non ci sta a farsi chiudere in una logica da plebiscito, o da sondaggio: sei per Prodi o contro? Vuoi Veltroni o Letta? E' un popolo molto complesso, largo, con sensibilità e idee diverse, operaio, intellettuale e femminista, pacifista e ambientalista, gay e antimafioso e tante altre cose ancora. Cosa lo unifica? La critica al potere, la critica a una società tutta costruita sulle gerarchie: il comando del mercato, dell'impresa, il comando del maschio, il comando del "bianco ariano". Ieri questa sinistra ha saputo unirsi perché ha capito che se tutte le sue anime restano divise, se non si alleano, se non si mischiano, allora vincono i moderati, allora Berlusconi ha buon gioco, allora tutto si trasforma in un apparato di potere e sparisce la speranza della trasformazione. La politica italiana non potrà non tenere conto di questa grandiosa giornata di piazza, di massa. Una cosa, da oggi, è chiarissima: la sinistra non è una forza "complementare", che si aggiunge alle forze centriste per svolgere un ruolo di sostegno, subalterno, nella battaglia contro Berlusconi. La sinistra non è un battaglione in più, chiamato a sostenere un pezzo di borghesia che fa la lotta contro la borghesia berlusconiana. La sinistra, invece, è fortemente, chiaramente e assolutamente autonoma. E rappresenta in questo paese il punto di vista di chi crede che la battaglia politica sia da combattere sul terreno della precarietà e dei diritti di tutti. Adesso il governo Prodi deve scegliere. Vuole preoccuparsi di Dini o di noi? Se sceglie noi può vincere, altrimenti è perduto.E anche noi dobbiamo scegliere. Questo popolo chiede alla sinistra politica tre cose: radicalità, cioè rigore sulle scelte. Novità, cioè capacità di misurarsi con schemi nuovi, nuove culture, nuovi problemi. E unità, cioè superamento di divisioni vecchie e sciocche. Non deludiamolo questo popolo. Non deludiamo piazza San Giovanni.
Piero Sansonetti - 21/10/2007

lunedì 22 ottobre 2007

Il messaggio che non si può cancellare

C'era bisogno di una scossa. E la scossa c'è stata. C'era bisogno di dire a tutti che le precarietà sono la malattia della nostra epoca, ma che le si possono combattere perché non sono un fenomeno naturale. Ed è stato detto da centinaia di migliaia di persone. C'era bisogno di ricordare al governo che la sua maggioranza è stata eletta per dare un segno di discontinuità rispetto all'era Berlusconi e che di questa discontinuità abbiamo visto poche e flebili tracce. Ed è stato ricordato dalle comuni parole di tante e tanti. C'era soprattutto bisogno di ritrovarsi insieme - anche per quelli che non c'erano - per poter riprendere un discorso comune, oltre le frammentazioni prodotte dalla violenza liberista e assecondato dalle «timidezze» della politica. Anche quella di sinistra. E, c'era bisogno che tre piccoli giornali, tra cui questo, insieme a un minuscolo gruppo di individui che nulla rappresentano se non le proprie idee, indicessero un grande momento di incontro, che altrimenti non ci sarebbe stato. Ennesima dimostrazione, quest'ultima, dello stato della rappresentanza, della necessità di ricostruirla su basi completamente nuove, ridando un senso e una pratica alla parola democrazia, vilipesa quand'è vuotamente inflazionata. Le tantissime persone scese in piazza ieri a Roma - molte delle quali si sono sobbarcate un faticoso viaggio - non avevano alcun interesse egoisticamente materiale da rivendicare, ma mille concreti bisogni da praticare. Bisogna ringraziarle e rispettarle per questo, perché lanciano una richiesta di partecipazione che l'attuale sinistra non potrà eludere, pena la sua scomparsa. Non è un confuso insieme di proteste o domande corporative, è la rivelazione di condizioni materiali ed esistenziali che si possono precisamente elencare componendo la realtà concreta della parte più bistrattata e rimossa del paese. Non è una generica richiesta di «unità» delegata a ristretti gruppi dirigenti, è la promessa di un impegno diretto che ha bisogno di luoghi e modalità precise di partecipazione. Se volessimo sintetizzare tutto questo con uno schema oggi in voga, potremmo dire che le nostre primarie le abbiamo iniziate ieri in piazza san Giovanni. Non per innalzare agli altari un leader - cosa che non vorremmo mai veder fare a sinistra - ma per abbattere gli steccati della frammentazione sociale e quelli ancor più ristretti delle appartenenze politiche. Un impegno consapevole - persino un po' preoccupato, per la gravità dei tempi in cui cade - che solo dei gattini ciechi potevano non vedere nella folla di ieri, piena di giovani. Certo, poi c'è il quadro politico, le fragilità di un governo in agonia, l'incubo della destra incombente. Ma - permetteteci di bestemmiare - tutto questo non può immobilizzare, altrimenti la destra tornerà al potere senza che a sinistra ci sia più niente. Nel quadro grigio di questi mesi, l'unico segnale di ottimismo è venuto ieri da una piazza. Sappiamo che non si può manifestare ogni giorno, ma da ieri sappiamo anche che lo spirito e la pratica del 20 ottobre dovranno essere quelle di ogni nostro futuro giorno. di Gabriele Polo (Il Manifesto, 21.10.07)

venerdì 19 ottobre 2007

INTERVISTA A PIETRO INGRAO

Tu sei tra quelli che hanno lanciato l’appello per la manifestazione del 20 ottobre. Perché e quale problema metti al primo posto?
Volgo gli occhi intorno a me. E vedo quanto sia tornato pesante la condizione del soggetto lavorativo. Sono una persona molto anziana. E vedo con quale pesantezza sta tornando sulla scena il grande tema della liberazione del lavoro. E mi torna in mente quella canzone- ricordi?- “il riscatto del lavoro/ dei suoi figli opra sarà…” Come sento di nuovo, attuale, bruciante quel canto… E spingo più lontano lo sguardo vedo risorgere la guerra: laggiù in Medio Oriente. E capisco e spero che domani tanti accorrano a Roma, scendano in piazza…
Ma noi italiani ci siamo ritirati dalla guerra in Iraq
Si: anche se tardi e male. In quelle terre ancora oggi la guerra continua. Né si sa se e quando l’invasore americano intenda ritirarsi... e i luoghi in cui ancora oggi la guerra campeggia sono cruciali per l’economia del mondo e anche per il mondo islamico a lungo e rovinosamente oppresso dall’Occidente. Noi occidentali da tempo siamo andati a rapinare in quelle terre. E in un modo o in un altro- gli americani in testa a tutti- l’ingerenza occidentale continua. Io prego i miei concittadini italiani che sabato vadano in tanti a dire: basta.
Eppure il governo italiano continua a sostenere l’apertura di una nuova base americana a Vicenza. E rimanda ai vincoli militari, ai patti con gli Stati Uniti.
Io conosco una legge che per me e per la mia patria sta al di sopra di qualsiasi patto con altri Stati. Sta scritto in Costituzione (articolo 11!) che per l’Italia è lecita solo la guerra di difesa. Quel vincolo è esattamente l’opposto della guerra preventiva praticata da Bush. È vivo ancora quell’articolo 11 scritto in Costituzione? Io il 20 ottobre vado a dire che sì, è vivo, anche se lo farò tremando.
Perché? Che temi?
Perché c’è stato un impallidimento dell’impegno alla pace: nel mio Paese e anche altrove. E sento il bisogno ardente che torni- fra tanti miei compatrioti, e anche al di là- una sete della pace: e valga ad incidere nella vita reale e nell’idea che abbiamo del mondo...
Il 20 potrebbe essere un tentativo di ripresa a partire da questi problemi. Ma c’è un quadro politico difficile, una sinistra frammentata. Cosa pensi del partito democratrico? Lo si può considerare una forza di sinistra?
R: Chiamiamo le cose col loro nome. Prodi e Veltroni- due uomini politici che io stimo- sono chiaramente dei leader “moderati”. E con essi penso si possano stringere utili alleanze, e sviluppare insieme anche progetti di largo respiro. Ma tutti sappiamo e vediamo che Prodi non ha nulla a che fare col socialismo e col pacifismo. Diamo dunque a ciascuno il suo nome. E misuriamo, valutiamo le possibili alleanze contro i comuni avversari, i reazionari dichiarati alla Berlusconi. Ma contemporaneamente lavoriamo a rendere forte e vitale lo schieramento di sinistra, evitando le inutili frantumazioni. Io stimo Di Pietro ma so bene che non ha nulla a che fare con una lettura di classe del mondo in cui vivo.
Dalle banche ai manager dell’industria, al mondo delle professioni... Ma con questo Pd, poi la sinistra che deve fare? Un’alleanza elettorale o no?
Classificarli per quello che sono, senza bugie. So che essi sono contro uno schieramento di destra che in Italia, purtroppo, è forte ed arrogante e tiene forti leve di comando in mano. Non mi scordo Berlusconi. E non voglio, non posso assolutamente rinunciare a un sistema di alleanze che mi dia forza nel combatterlo, e so che Prodi è un moderato che lotta contro i conservatori reazionari. E io - in questo – voglio stringere alleanza con lui. Ma la sinistra di classe a cui sono legato è altro. Muove da un’altra lettura del mondo. Un tempo erano dense di vita le sezioni, le case del popolo, dove si costruivano comunanze, letture del presente, ipotesi sul domani.
Oggi le sezioni praticamente non esistono più o sono semivuote...
Non credo che sia così, ma non ne so abbastanza. E con le mie deboli forze, ostinatamente voglio lavorare alla resurrezione di quei luoghi di formazione politica e di scatto della lotta. E avendo questo non penso solo al calcolo materiale dei voti possibili. Il 20 ottobre noi andiamo a cercare una convenienza più profonda: resto ad affermare come forza, ma anche a costruire una convenzione, una lettura comune della società controversa in cui vivo: compreso il dubbio, l’interrogarsi dubitando: la comunanza nella ricerca.
Oggi invece tutto questo non c’è, ci sono le primarie... Cosa ne pensi?
Ne comprendo poco. So però che per costruire una identità di popolo bisognava fissare regole, se vuoi contare voti, apprendere segni. E comprendo, tutelo anche queste regole. Ma la partecipazione politica è altro e di più. Io ho vissuto un’esperienza in cui la politica si dipanava nella sezione, nella Camera del lavoro, spesso per strada, dove il sindaco camminava, incontrava, rispondeva; e il capo del sindacato semmai litigava col compagno operaio. Pezzi di società, od anche storia di singoli che evolvevano insieme. Il 20 di ottobre scendiamo in piazza anche e molto per comunicare: per conoscerci. Vogliamo, speriamo di parlare anche a chi è lontano e non sa, o dubita.
Magari non è attivo ma potrebbe essere riattivato...
Tu dirigi un giornale di battaglia, come il Manifesto, e ne sai più di me: stai dentro l’urto quotidiano. Però è di grande importanza che in queste brevi ore mancanti all’appuntamento di sabato si discuta sulle strategie, sulle vie su cui intendiamo camminare. E questo come domanda pubblica che la sinistra pone a se stessa e ai suoi alleati. È tardi? Non lo so. Ma si può. E bisogna accelerare il cammino.
E tu quale compito metti al primo posto? Ti rispondo con due parole: la lotta alla guerra.
Ma da quando le truppe italiane si sono ritirate dall’Iraq, anche per l’opinione pubblica italiana la guerra è «scomparsa», l’Iraq è rimosso, l’Afghanistan sembra questione di addetti ai lavori...
Sì, ce ne siamo andati e basta. E invece non si chiede solo questo a noi. Io credo che noi dobbiamo lavorare non solo per spegnere questa guerra infame che continua in Irak. Dobbiamo respingere l’agire armato di massa. E rilanciare le forme civili di confronto , i possibili compromessi, i riconoscimenti reciproci. Anche dubitando. Lo confesso: credo al valore del dubbio, e al confronto con l’altro.
Sì, che rimanda a una pratica dell’umano...
Abbassando un po’ la voce potremmo dire: è una lettura del mondo.

giovedì 18 ottobre 2007

BastaPrecarietà

Depositati in Cassazione tre quesiti referendari contro il lavoro precario e per la democrazia sindacale. Il 16 Ottobre alcuni giuslavoristi e alcuni precari e rappresentanti sindacali di base hanno depositato in cassazione tre quesiti referendari sul lavoro precario e sulla democrazia sindacale nei posti di lavoro.
I primi due quesiti sono finalizzati ad eliminare le maggiori storture del mercato del lavoro presenti nell'attuale legislazione. - abrogazione totale della Legge 30 e del decreto legislativo di attuazione 276 del 2003;- abrogazione parziale del Decreto Legislativo 368 del 2001 sui contratti a tempo determinato. L'ultimo quesito è per l'abolizione delle parole “nell'ambito delle organizzazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva” dell'art. 19 della Legge 300/70. Tale abrogazione, finalizzata al raggiungimento di un maggior livello di democrazia sindacale, determinerebbe la cancellazione del monopolio oggi esistente a favore delle maggiori confederazioni sindacali. Diversamente da chi ritiene democratico consultare se stessi per prendere ed attuare decisioni che interessano l'intera società civile, i firmatari e promotori di questi referendum ritengono indispensabile che su temi quali precarietà e democrazia, la consultazione per essere realmente democratica deve essere ufficialmente certificata e deve fare esprimere l'intera popolazione italiana. Il Comitato Promotore non si ritiene il detentore unico dei quesiti referendari depositati: si tratta di una proposta referendaria aperta a modifiche, ampliamenti ed integrazioni. Sin dai prossimi giorni, tutti coloro che vorranno aderire, partecipare, collaborare e promuovere con noi la raccolta delle firme, potranno contattare il comitato alla email info@bastaprecarieta.it
Roma, 17 Ottobre 2007
Per adesioni, informazioni, contributi: info@bastaprecarietà
www.bastaprecarieta.org

mercoledì 17 ottobre 2007

LA FLESSIBILITA’ E’ NEMICA DEL “LAVORO DECENTE”

di Luciano Gallino La definizione di “lavoro decente” o “dignitoso” è stata proposta diversi anni fa dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro. Nel 1999 si svolse a Ginevra l’assemblea annuale dell’ OIL e il rapporto del Direttore Generale si intitolava appunto Pour un travail décent. In questo rapporto venivano delineate sette forme base di sicurezza economica e sociale che dovrebbero venire assicurate a tutti i lavoratori. La moltiplicazione dei lavori flessibili o atipici tende a diminuire la maggior parte di codeste forme di sicurezza; di conseguenza compromette in varia misura lo statuto del lavoro decente. Mi limiterò a ricordare alcune di esse, con qualche adattamento e un’aggiunta rispetto al testo originale, e notare come ciascuna di essa sia erosa o ridotta a zero dai suddetti lavori. La sicurezza dell’occupazione, che significa non solo protezione contro i licenziamenti abusivi, ovvero senza causa, ma anche stabilità dell’occupazione compatibile con un’economia dinamica.Sicurezza professionale: implica la possibilità di valorizzare la propria professione accrescendo via via le competenze tramite il lavoro, e formandosi una riconoscibile e stabile identità professionale. Sicurezza sui luoghi di lavoro: comprende la protezione contro gli incidenti e le malattie professionali grazie ad un’adeguata regolazione in tema di salute e sicurezza, che preveda anche limiti agli orari e agli straordinari, nonché la riduzione dello stress sul lavoro.Sicurezza del reddito: creazione e mantenimento di un reddito adeguato, in grado di assicurare al lavoratore e ai suoi familiari la copertura dei “costi dell’uomo” a fronte di un dato livello di sviluppo sociale. Sicurezza di rappresentanza. Essa rinvia alla garanzia offerta dalla possibilità di espressione collettiva sul mercato del lavoro grazie a organizzazioni sindacali libere e indipendenti, nonché di altri organismi capaci di rappresentare gli interessi dei lavoratori. Sicurezza previdenziale: possibilità di assicurarsi attraverso il lavoro un reddito che permetta di mantenere, dopo l’uscita dal lavoro, un livello di vita comparabile a quello precedente. Questa forma di sicurezza non compare nell’elenco originale dell’Oil. La moltiplicazione dei lavori flessibili erode una parte notevole delle citate sicurezze. Riduce, per definizione, quella relativa alla stabilità dell’occupazione.
Mentre la formazione e valorizzazione della professionalità e identità lavorativa, come si è già notato, è resa difficile dalla varietà di ambienti lavorativi, esperienze tecniche, modelli di organizzazione del lavoro cui è esposto il lavoratore flessibile. La sicurezza nei luoghi di lavoro – che in questo caso si riferisce alla sicurezza fisica, alla salute – è compromessa dai lavori flessibili, in specie quelli implicanti contratti di breve durata, perché le imprese non hanno alcun incentivo a investire nella formazione alla sicurezza di lavoratori che nel volgere di poche settimane o mesi non saranno più alle loro dipendenze. Quanto ai lavoratori, essi non hanno né il tempo per apprendere i codici della sicurezza nell’impresa dove saranno occupati per breve tempo, né la motivazione a farlo. Un altro aspetto è stato ripetutamente richiamato da ricerche svolte in diversi paesi. Chi lavora con un contratto atipico inclina a ridurre le attenzioni per la propria salute. Pospone, ad esempio, l’opportunità di sottoporsi ad una visita medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il contratto che sta per scadere. Sottovalutare il proprio stato di stress, o trascurare una visita per recarsi al lavoro, o recarsi al lavoro sebbene indisposti, incide alla lunga sullo stato di salute.
Il lavoro flessibile intacca fortemente la sicurezza e il livello di reddito. Per quanto riguarda le due categorie più ampie di lavoratori atipici, i dipendenti a tempo determinato e i collaboratori coordinati o a progetto, che sono formalmente degli autonomi, le ricerche confermano che essi hanno un reddito netto annuo notevolmente inferiore sia a quello dei dipendenti con un contratto standard, sia a quello dei veri autonomi. La causa principale di simili dislivelli è evidente. I contratti atipici comportano in molti casi, talora per anni di seguito, non i normali 12 mesi di lavoro, o meglio 11 mesi di lavoro più uno di ferie retribuite, più la tredicesima, arrecanti al lavoratore 13 mensilità effettive di retribuzione. Possono voler dire piuttosto 8-9 mesi di lavoro, quindi non più di tanti di retribuzione piena.
Questo accade ovviamente quando chi appartiene a tali categorie vede scadere un contratto a termine, non importa se da dipendente o da collaboratore, e non ne trova un altro se non dopo settimane o mesi. Ma succede anche, con peggiori effetti, per altre categorie di atipici; ad esempio quando uno è assunto a tempo indeterminato da un’impresa utilizzatrice, perché alla retribuzione piena egli avrà diritto soltanto quando si è chiamati da un utilizzatore. Va ricordato infatti che nel decreto attuativo della legge 30 è previsto che le imprese di somministrazione corrispondano il salario intero ed i relativi contributi di legge dovuti quando il lavoratore trova effettiva occupazione presso un utilizzatore, mentre nel periodo tra un’occupazione e l’altra al lavoratore spetta solamente una indennità di disponibilità; divisibile, si noti, in quote orarie, sì da renderla proporzionale ai tempi di constatata inattività.
Nei decreti del Ministero del Lavoro essa è stato indicato, a partire dal 2003, in 350 euro mensili per il lavoro in somministrazione, con incrementi minimi di anno in anno. Nel caso del lavoro intermittente l’indennità scende al 20% del salario medio (corrispondente a circa 250 euro) dei dipendenti dell’utilizzatore. In tutti questi casi i contributi sono corrisposti in proporzione ai periodi effettivamente lavorati. Fatto riguardo a sua volta alla sicurezza della rappresentanza sindacale, a diminuirla drasticamente provvedono, in mutevoli combinazioni, vari fattori connessi alla flessibilità del lavoro: la mobilità dei lavoratori flessibili da un posto all’altro; la separazione del lavoratore dall’impresa in cui presta la sua attività, che è insita nel lavoro in affitto o in somministrazione; la individualizzazione dei rapporti di lavoro promossa dalle riforme del mercato del lavoro; i trasferimenti di rami d’azienda da una regione all’altra oppure all’estero.
In parallelo alla riduzione delle sicurezze attinenti all’occupazione, al reddito e all’ammontare dei relativi contributi, si riduce inevitabilmente anche la sicurezza previdenziale. Secondo calcoli recenti, chi ha cominciato a lavorare con contratti di collaborazione coordinata e continuativa fin dal momento della moltiplicazione di questi, verso la metà degli anni ‘90, quando avrà raggiunto i 60 anni e al tempo stesso – caso assai improbabile – 35 annualità contributive piene, potrà contare al massimo su pensioni corrispondenti al 37% della sua retribuzione, che è in media assai più bassa di quella dei lavoratori dipendenti.L’elenco delle sicurezze relative a occupazione, reddito, rappresentanza sindacale e altro elaborato dall’Oil non rappresenta semplicemente una sorta di carta dei diritti morali dei lavoratori.
Infatti la stessa Oil attraverso un suo programma specifico ha avviato delle ricerche in numerose imprese della Ue e di altri paesi. A tale fine le suddette sicurezze sono state “operazionalizzate”, ossia trasformate in parametri misurabili, che si possono applicare sia a livello di impresa, sia a livello nazionale. Si comincia pertanto a disporre di basi di dati globali sulle varie forme di sicurezza che distinguono, in misura variabile, il lavoro decente da quello che non può dirsi tale. Sarebbe il caso di farne maggior uso anche in Italia.

martedì 16 ottobre 2007

Il 20 ottobre per i migranti

di Gianfranco Bettin “Quindi, la cittadinanza: pienezza di diritti per i migranti, rapida approvazione della legge di superamento della Bossi – Fini, chiusura dei Cpt”: è uno dei punti, le “sette questioni fondamentali”, contenuti nel testo di convocazione della manifestazione del prossimo 20 ottobre. Un appello e una manifestazione niente affatto riducibili, come si vede anche da questo punto, alle polemiche sul welfare o alle vicende strettamente politiche interne al centrosinistra. Al contrario, un appello e un testo aperti, come aperte, e complesse e cruciali, sono quelle “sette questioni”.
L’immigrazione lo è forse ancora di più, fra tutte. Per la sua natura globale e per l’articolazione di aspetti e la diramazione dei percorsi che la caratterizzano, oltre che per drammaticità e consistenza di spessore storico. Non c’è forse argomento che mostri più di questo la contraddittorietà dell’attuale esperienza di governo del centrosinistra, né che abbia, all’origine stessa dell’Unione e del suo programma politico, suscitato vere attese e vere speranze.
Soprattutto, la speranza di un cambio di paradigma e di concreto approccio alla questione. Il primo passo è stato, in questo senso, moderatamente incoraggiante. La proposta di legge delega elaborata dai ministri Amato e Ferrero e presentata lo scorso aprile ha rappresentato un significativo passo oltre la Bossi – Fini. Si poteva certo fare di più, ma in confronto con l’aberrante normativa partorita dal grembo – “sempre fecondo” – della destra al governo fino al 2006 i miglioramenti, e anche il salto di schema mentale, di visione culturale, sono evidenti. Il limite principale è il permanere di una visione differenziata del diritto dei migranti, a cominciare dalla conservazione – pur nel superamento dei Cpt – della detenzione amministrativa nel quadro di tutto il complesso di misure che tendono a trasferire oltre frontiera, nei paesi di partenza o in quelli di ultimo transito verso l’Italia non solo dell’onere della formazione o dell’iscrizione in liste d’attesa, ma anche della detenzione e della repressione (dal programma europeo Frontex sottoscritto dall’Italia agli accordi bilaterali finalizzati alla repressione).
Questi i limiti, o peggio, della normativa e della politica del governo prodi presenti nella legge-delega e nella prassi concreta, e tuttavia quella la proposta Amato – Ferrero apriva spazi di diritto nuovi e lasciava intendere, appunto, una svolta culturale prima ancora che politica e normativa. Invece, da aprile in poi, l’iter legislativo sembra procedere a rilento e, soprattutto, è cambiato radicalmente il clima culturale e politico in cui la discussione si svolge. Se il ministro Ferrero ha coerentemente continuato a svolgere il proprio discorso innovativo, non solo Amato ma la maggioranza dell’Unione è sembrata stravolgere drasticamente soprattutto l’approccio originario del centrosinistra. Ciò che era solo un limite, certo serio, e cioè l’idea che l’immigrazione fosse prevalentemente un “problema”, anzi una “emergenza” e un fenomeno da “limitare” e non una questione strutturale da governare con intelligenza ed equità, idea presente anche nel famoso programma di governo dell’unione, è lievitata fino a diventare vera ossessione, sia a Roma che in molte città, proprio ad opera di esponenti del centrosinistra.
Incalzati dalla destra e dalle sue campagne mediatiche sulla sicurezza, campagne infami che strumentalmente connettono di continuo immigrazione e criminalità, sia esponenti del governo centrale sia sindaci e assessori si sono fatti volonterosi interpreti di questa ossessione e volonterosi artefici di campagne vergognose contro i migranti quanto inefficaci e cialtronesche sul piano della difesa della pubblica sicurezza, il cui maggiore e più chiaro esempio è per ora la ridicola e indecente campagna di Cioni contro i lavavetri. Ma si può anche peggiorare, visto il clima. Per questo la manifestazione del 20, e il confronto che l’ha preceduta e quello che, speriamo, la seguirà, non intendono ridursi all’agitazione di un giorno, tanto meno ridotta ai suoi termini più grevemente politici e più contingentemente programmatici. La sorte dei migranti segna il tempo in cui viviamo e ne mostra la vera qualità. E’ a partire da questo che bisogna lavorare, anche in questa stagione insidiosa, come recita l’appello per il 20 ottobre, per “ricostruire un protagonismo e ridare fiducia alla parte più sacrificata del paese” e del mondo che in questo paese viene.

lunedì 15 ottobre 2007

Anche noi studenti saremo in piazza il 20 Ottobre

Le studentesse e gli studenti del nostro paese lanciano un appello alla mobilitazione contro ogni forma di precarietà e sfruttamento esistenziale nella vita e nella formazione.
Nelle scuole e nelle Università luoghi profondamente colpiti dai processi globali di privatizzazione del sapere, le esistenze e le conoscenze sono ridotte a merce.
Gli anni di Berlusconi hanno accelerato il processo di costruzione di Scuole ed Università funzionali al mercato e asservite al neoliberismo; le risorse pubbliche sono state ridotte al minimo, le politiche di investimento in innovazione e ricerca pubblica sono ormai state azzerate. Scendiamo in piazza per chiedere una decisa inversione di tendenza, segnali di forte discontinuità che mettano la conoscenza e il libero accesso ad essa al centro dell'azione di governo.
Crediamo che questo possa avvenire solo se in Italia si riescano a sviluppare degli strumenti che garantiscano realmente la partecipazione di studenti e precari. Reclamiamo il sacrosanto diritto ad essere consultati sulle scelte che riguardano il nostro presente e il nostro futuro!
Chiediamo l'abrogazione delle riforme Moratti, l'istituzione di una legge nazionale per il diritto allo studio per tutti/e e l'abolizione del numero chiuso nelle università, per garantire il diritto costituzionale all'accesso ai saperi a prescindere dalla propria condizione sociale, per assicurare il diritto primario e inalienabile alla formazione come principale elemento del pieno sviluppo della persona umana.
La precarietà esistenziale ci condanna ad una vita di insicurezza sociale, di incertezze per il proprio presente e futuro, ci relega ad essere cittadini di serie B senza né voce né dignità.
Scenderemo in piazza perchè riteniamo che sia del tutto prioritaria una revisione delle norme che regolamentano il mondo del lavoro e del welfare, a partire dal superamento della legge 30 e dall'introduzione di nuovi strumenti di tutela sociale per chi è in formazione.
Crediamo in un modello che garantisca sicurezza sociale a partire dal reddito, che ci renda realmente liberi di scegliere e che ci permetta di formarci lungo tutto l'arco della vita; per questo chiediamo al governo l'istituzione di un reddito di formazione che garantisca l'accesso al sapere in tutte le sue forme, che assicuri servizi e autonomia del proprio percorso formativo, a partire da un’immediata copertura finanziaria di tutte le borse di studio. Vogliamo che si ponga fine allo scandalo tutto italiano degli idonei non assegnatari.
Giudichiamo vergognoso il tentativo di costruire in questo paese una finta contrapposizione tra diritti dei giovani e dei pensionati. Crediamo infatti che la precarietà non si sconfigga né togliendo i diritti ai nostri genitori né attaccando strumentalmente coloro che questi diritti continuano a difendere.
Vogliamo quindi rilanciare un dibattito pubblico che attraversi scuole, università e territori, capace di rendere il 20 ottobre la data di tutti/e, dove si esprima realmente un bisogno sociale di cambiamento e trasformazione dell'intera società.
Le studentesse e gli studenti esprimeranno la loro soggettività con un percorso partecipato nelle scuole e nelle università che ha l'obiettivo di costruire uno spezzone unitario caratterizzante di tutte quelle realtà e dei singoli che aderiranno a questo appello; una soggettività autonoma dai processi politici in atto, che rifiuta ogni tipo di strumentalizzazione, che chiede a gran voce un sapere libero come motore della trasformazione per una vera società della conoscenza, dei diritti e della pace...
Il sapere non è una merce ma un bene comune...
Coordinamento Studenti per il 20 ottobre.

La piazza del 20 ottobre: Un'occasione a sinistra

Le “voci” necessarie per cambiare la politica di Bianca Pomeranzi Ho partecipato con convinzione all’appello del 3 agosto, perché ritenevo necessario un “gesto” che riportasse l’attenzione allo spirito del patto pre-elettorale e allo stesso tempo favorisse il processo di creazione di una sinistra, capace di raccogliere e rilanciare non solo il dissenso, ma anche la voglia di partecipazione che si manifesta spesso nel nostro paese. Quindi ho letto con un certo fastidio il dibattito estivo sui grandi giornali d’opinione, dove si accusava quell’appello di massimalismo e di radicalità, cercando in ogni modo di creare divisioni e di addossare ai promotori l’intenzione di voler far cadere il Governo e di sconfessare l’agire di una parte del sindacato. Alla fine mi sembra, tuttavia, che il gran clamore mediatico abbia evidenziato l’importanza della mobilitazione e soprattutto abbia portato alla luce il problema di “come” intendere l’agire politico oggi, in una realtà, come quella italiana, segnata da alcune “specificità” che sono quasi sempre negative, ma che, se osservate meglio, potrebbero forse costituire una buona base di partenza proprio per una sinistra capace di intervenire sulle complessità del presente. La prima di queste è che attualmente tutte le sinistre sono al governo del paese, in una configurazione unica rispetto a tutti i paesi dell’Europa continentale e tra le grandi e medie potenze mondiali. Questo fatto, al di là dei problemi che comporta, ci pone in una situazione di particolare responsabilità rispetto alla attuale crisi della politica. Crisi che, come molte autorevoli analisi hanno dimostrato, è dovuta alle trasformazioni del capitale, che riorganizzandosi su scala globale, ha fatto saltare il sistema di governo delle democrazie liberali basato sulla divisione tra pubblico e privato e tra produzione di beni e riproduzione umana. La cronaca quotidiana, oltre ai molti orrori delle guerre in corso, ci dimostra che in questa fase sono proprio i corpi e le nuove soggettività a creare “disordine” e la politica, quella istituzionale, non riesce a trovare una risposta adeguata alle esigenze di organizzazione sociale poiché le sfuggono i confini del suo stesso campo d’azione e dei processi che sempre più spesso generano nuove violenze identitarie e nuove esclusioni. In questo contesto, le scelte di politica nazionale se pure molto ridotte nella loro ampiezza, sono ancora importanti per individuare soluzioni alternative all’ideologia neo-liberista che pervade l’Europa e le istituzioni internazionali. Soprattutto dopo che la crisi dei “mutui” americani ha svelato in modo inequivoco il meccanismo di impoverimento svolto dai mercati finanziari nei confronti dei ceti medi e bassi della popolazione. Tuttavia per far in modo che soluzioni alternative divengano possibili e condivise occorre saper guardare alle pratiche che vecchie e nuove soggettività sociali, su cui si rovesciano i problemi più consistenti, riescono a individuare. Qui si incontra l’altra significativa specificità italiana che attorno al movimento operaio e al più grande partito comunista “democratico” dell’occidente vide nella seconda metà degli anni settanta mettere in campo forme di democrazia partecipativa e di cooperazione sociale che convivevano con la democrazia rappresentativa.Una sinistra nuova potrebbe rileggere quella storia innovandola, ma soprattutto dovrebbe avviare un “cambio di passo” nella relazione tra rappresentanti e rappresentati. Non si tratta infatti di introdurre forme apparenti di partecipazione che si esauriscono nella scelta di un leader, e neppure di guardare ai “movimenti” nel tentativo di recuperare una base da rappresentare, ma piuttosto di costruire un dialogo sistematico tra gli attori sociali per individuare soluzioni innovative, lasciando esprimere, anche a livello nazionale, capacità e energie che spesso nei contesti territoriali operano con successo.La politica istituzionale, che è in crisi soprattutto per la sua perdita di senso poiché le sfuggono i confini della stessa area di riferimento della sua azione, dovrebbe avviare una riconsiderazione approfondita sui propri assetti decisionali, ripensandoli a fronte delle nuove soggettività che, se pure frammentate, possono ridare senso all’agire collettivo. Questo significa fare in modo che gli obiettivi dell’azione politica nascano attraverso un processo partecipativo, rompendo lo schema del basso/alto e favorendo analisi a più voci della crescente sovrapposizione tra politica e vita degli individui. Non è facile, ma è possibile e proprio il 20 ottobre potrebbe essere un buon terreno d’avvio su questa strada.Il recente successo di mobilitazione del movimento gay, lesbico e queer, dovrebbe far ripensare cosa significano oggi i “diritti civili” per l’agire collettivo e come, assieme ai “diritti sociali” possono modificare e ridisegnare nuove forme di società.Su questo si gioca un’altra delle specificità italiane dove sin dagli anni settanta il femminismo, allora capace di esprimere un “movimento” di donne, mise in questione la separazione tra privato e politico a partire un soggetto, rimosso e non nominato, che prendeva parola sul proprio destino, mostrando la necessità di un ripensamento complessivo su “cosa” è la politica. In politica infatti, le aperture alle donne sono state concepite solo come delle estensioni, lente e faticose, del regime dei diritti da parte dei poteri esistenti, ma mai come assunzione di nuovi valori, né tanto meno di nuovi processi e forme di relazione. Le culture e le pratiche del femminismo, che su questo hanno accumulato pratiche e saperi, possono fornire in questo momento una buona interlocuzione per una sinistra che voglia ripensare i confini della politica e riconquistare la capacità di coniugare l’aspirazione all’uguaglianza e la possibilità di far convivere le differenze.Quello che occorrerebbe adesso infatti, a una sinistra non solo resistenziale sarebbe la capacità di portare nel discorso pubblico e con pari dignità obiettivi che possano unire politica e vita. L’appello di agosto voleva spostare l’attenzione proprio su questi argomenti. Perciò ho aderito e perciò mi auguro che il 20 ottobre saremo in grado di dare spazio alle voci e di costruire ponti tra questi “mondi diversi”. Senza questo non c’è politica e non c’è neanche sinistra.
Bianca Pomeranzi

Don Gallo: «Verrò in piazza per incontrare la vera politica»

Intervista a Don Gallo di Gemma Contin. Ci saranno coloro che vivono il precariato, quelli coinvolti dal tema della guerra e soprattutto tutti quelli che vogliono riconquistare una grande partecipazione popolare, Don Andrea Gallo è un prete "disobbediente". Animatore della Comunità di San Benedetto al Porto, per la curia genovese è un comunista. Ha aderito alla manifestazione del 20 ottobre.Don Gallo, se dovesse indicare ai giovani, ai militanti, alla gente comune, tre buone ragioni per scendere in piazza il 20 ottobre, cosa direbbe?
Di fronte a una crisi così grave ed evidente della democrazia partecipativa e rappresentativa, scendere in piazza è praticamente un dovere. Io abbraccio tutti coloro che hanno avuto l'idea di convocare un'assemblea di questo tipo. Direi che è un incontro a cui i movimenti devono partecipare. I movimenti sono colpiti dalla crisi dei poteri, crisi dei sindacati, dei partiti. I movimenti che sono vivi devono essere i primi a dire "incontriamoci". Questa è la prima motivazione. La seconda ragione? Perché non c'è nessun tentativo di egemonia da parte delle segreterie dei partiti. Direi che sui grandi temi nessuno deve sentirsi usato e nessuno può tirarsi da parte. Direi invece a tutti che finalmente possiamo dirci non una sinistra radicale, che qualcuno usa per dividerci, ma una sinistra popolare, che è un termine che unisce. Io aderisco con tutto il mio cuore come cittadino, come ex partigiano, perché non è vero che c'è una grande confusione della politica. Da buon marinaio, e io sono stato anche marinaio, posso dire che invece la bussola c'è, e la bussola sono i principi costituzionali: i primi dodici articoli della Costituzione. Una parola convincente a chi ha detto che non verrà?
Mi addolora sapere che le amiche e gli amici, le compagne e i compagni della NoTav rinunciano alla partecipazione. Io gli vorrei dire: ma come? noi siano venuti in Val Susa! Non è che siamo di fronte a una sinistra che sostiene il governo ma che gli manifesta contro o che vuol mettere delle pezze. No, qui è un incontro a 360 gradi: è la vera politica. Ci guardiamo in faccia, negli occhi, si ricostruisce una grande rete popolare dove non c'è nessuna egemonia, dove finalmente c'è la premessa fondamentale che il confronto è il bene comune. Secondo lei invece chi ci sarà?
Tutti coloro che vivono il precariato, tutti quelli che hanno il problema del lavoro, tutti quelli coinvolti dal grande tema della guerra, tutti quelli che temono le privatizzazioni selvagge, altra grande questione che viene avanti, e le microliberalizzazioni che non servono. E soprattutto tutti quelli che sentono il bisogno di riconquistare una grande partecipazione popolare mentre si parla di riforma elettorale. Si tratta quindi proprio di una partecipazione larga, sentita, di tutti quelli che verranno in piazza, ciascuno ad esporre le proprie motivazioni. Per questo mi fanno soffrire e non capisco gli amici e i compagni della No Tav. Che appello gli rivolgerebbe?
Vorrei che lei scrivesse, proprio per i miei amici che ho sempre sostenuto e per tutti i dirigenti No Tav che conosco personalmente, che mancando il No Tav è come se ci dicessero "voi che siete venuti in Val Sua, non ci fidiamo di voi". Ci sarà il No Mose, il No Dal Molin. Ci sarà il No di tutta Europa, ancora una volta con la possibilità di riscoprire la partecipazione democratica. Un'ultima ragione per esserci?
Vorrei dire a tutti che non c'è pericolo, visto come è stata convocata dal direttore di Liberazione , dal manifesto , da Gigi Sullo e gli altri. Non c'è sotto nessun trucco. Non c'è, come dicono a Genova a chi crede di fare il furbo e di ingannare, chi ha "la volpe sotto l'ascella". E' un appuntamento troppo importante per dire innanzitutto la delusione, la rabbia di migliaia di persone. Ma noi non vogliamo disperderci e lanciare una mera protesta. Noi vogliamo portare avanti un no totale, e questa è la motivazione principale, culturale, politico, morale, a quello che è il neoliberismo non soltanto europeo ma mondiale. Questo può essere veramente l'inizio, l'incontro di tutti i movimenti, per creare la vera alternativa, sia per quella che sarà una prossima elezione, sia per quello che sarà il rinnovamento dei partiti. E in questa alternativa noi diremo che ci siamo, che vogliamo riprendere tutti i valori che in tutti questi anni sono stati sviliti. Perché c'è il virus perenne del fascismo in libera uscita da anni. Dunque chi è di sinistra, chi è un cittadino democratico, il 20 ottobre deve essere a Roma. Sarà rispettato, nessuna egemonia, però la rete deve costruirsi.

sabato 13 ottobre 2007

Incontriamoci @sx

Siamo giovani della sinistra impegnati in movimenti, associazioni, partiti e collettivi, che non si rassegnano ai “paesi dormitorio”, alla periferia che nega spazi pubblici, alla condanna del diverso.
Noi siamo l’altro Paese. Non ci pieghiamo alla governance che fa della politica uno strumento al servizio del mercato, della speculazione edilizia, e non degli uomini e delle donne che lo attraversano, lo abitano, lo costruiscono tutti i giorni con i propri bisogni e desideri.
Noi siamo una parte della Sinistra che prova a dare una risposta a queste necessità e a questi desideri.
Abbiamo deciso di partire da questi territori, dal loro disagio ma soprattutto dalle sue risorse. Abbiamo deciso di cominciare da quello di cui c’è bisogno, uno spazio pubblico di discussione per la sinistra, per discutere a partire dai contenuti delle piattaforme della manifestazione del 20 ottobre. Precarietà dell’esistenza, diritti di cittadinanza, generi, diritto allo studio e di accesso ai saperi, trasformazioni del territorio costituiscono alcuni dei nostri terreni di confronto sui quali intendiamo praticare conflitto e proposta.
@sx è questo, è la sinistra che si fa spazio. @sx è un gruppo di giovani che vogliono cambiare la politica, contribuendo al dibattito della sinistra, alimentandone pluralità e diffusione. @sx è la liberazione di spazi, per gridare che un’intera generazione ha bisogno di luoghi alternativi di socialità accessibile e nonproibizionista, per fare società.
Lo faremo, percorreremo questa strada, a partire dalla costruzione della manifestazione del 20 ottobre. @sx si incontra mercoledì 17 ottobre alle ore 21 a Ladispoli in via La Spezia, 67/c . Una strada che vuole attraversare tutto il territorio, dai laghi al mare, per metterci in relazione, per continuare a sperare, per ricominciare a lottare!

Appello per la manifestazione di 20 Ottobre

L’attuale governo non ha ancora dato risposte ai problemi fondamentali che abbiamo di fronte, per i quali la maggioranza degli italiani ha condannato Berlusconi votando per il centrosinistra. Serve una svolta, un’iniziativa di sinistra che rilanci la partecipazione popolare e conquisti i punti più avanzati del programma dell’Unione, per evitare che si apra un solco tra la rappresentanza politica, il governo Prodi e chi lo ha eletto.
Occorre fare della lotta alla precarietà e per una cittadinanza piena di tutte e di tutti la nostra bussola.Noi vediamo sette grandi questioni.
Quella del lavoro: cioè della sua dignità e sicurezza, con salari e pensioni più giusti, cancellando davvero lo scalone di Maroni e lo sfruttamento delle forme “atipiche”, e con la salvaguardia del contratto nazionale come primario patto di solidarietà tra le lavoratrici e i lavoratori... Quella sociale: cioè il riequilibrio della ricchezza e la conquista del diritto al reddito e all’abitare.
Quella dei diritti civili e della laicità dello Stato: fine delle discriminazioni contro gay, lesbiche e trans, leggi sulle unioni civili, misure che intacchino il potere del patriarcato. Vogliamo anche che siano cancellate leggi contro la libertà, come quella sul carcere per gli spinelli.
Quindi, la cittadinanza: pienezza di diritti per i migranti, rapida approvazione della legge di superamento della Bossi-Fini, chiusura dei Cpt. La pace: taglio delle spese militari, non vogliamo la base a Vicenza, vogliamo vedere una via d’uscita dall’Afghanistan, vogliamo che l’Italia si opponga allo scudo stellare.
L’ambiente ha tanti risvolti, dalla pubblicizzazione dell’acqua alla definizione di nuove basi dello sviluppo, fondate sulla tutela e il rispetto per l’habitat, il territorio e le comunità locali. Per questo ipotesi come la Tav in Val di Susa vanno affrontate con questo paradigma. La legalità democratica: lotta alla mafia e alle sue connessioni con la politica e l’economia. Nessuna di queste richieste è irrealistica o resa impossibile da vincoli esterni alla volontà della maggioranza.
Il fallimento delle politiche di guerra dell’amministrazione Bush si sta consumando anche negli Stati uniti, i vincoli di Maastricht e della banca centrale europea sono contestati da importanti paesi europei, l’andamento dei bilanci pubblici permette scelte sociali più coraggiose.
Ma siamo consapevoli che per affrontare tutto questo occorre che la politica debba essere politica di donne e di uomini - non solo questione maschile - e torni ad essere partecipazione, protagonismo, iniziativa collettiva.Per questo proponiamo di ritrovarci a Roma il prossimo 20 ottobre per una grande manifestazione nazionale: forze politiche e sociali, movimenti, associazioni, singoli.
Chiunque si riconosca nell’urgenza di partecipare, per ricostruire un protagonismo della sinistra e ridare fiducia alla parte finora più sacrificata del paese.
Gianfranco Bettin, Lisa Clark, Tonio Dell’Olio, Antonio Ferrentino, Luciano Gallino, Pietro Ingrao, Aurelio Mancuso, Lea Melandri, Bianca Pomeranzi, Gabriele Polo, Rossana Praitano, Rossana Rossanda, Marco Revelli, Piero Sansonetti, Pierluigi Sullo, Aldo Tortorella, Nicola Tranfaglia.
3 agosto 2007