lunedì 22 ottobre 2007

Il messaggio che non si può cancellare

C'era bisogno di una scossa. E la scossa c'è stata. C'era bisogno di dire a tutti che le precarietà sono la malattia della nostra epoca, ma che le si possono combattere perché non sono un fenomeno naturale. Ed è stato detto da centinaia di migliaia di persone. C'era bisogno di ricordare al governo che la sua maggioranza è stata eletta per dare un segno di discontinuità rispetto all'era Berlusconi e che di questa discontinuità abbiamo visto poche e flebili tracce. Ed è stato ricordato dalle comuni parole di tante e tanti. C'era soprattutto bisogno di ritrovarsi insieme - anche per quelli che non c'erano - per poter riprendere un discorso comune, oltre le frammentazioni prodotte dalla violenza liberista e assecondato dalle «timidezze» della politica. Anche quella di sinistra. E, c'era bisogno che tre piccoli giornali, tra cui questo, insieme a un minuscolo gruppo di individui che nulla rappresentano se non le proprie idee, indicessero un grande momento di incontro, che altrimenti non ci sarebbe stato. Ennesima dimostrazione, quest'ultima, dello stato della rappresentanza, della necessità di ricostruirla su basi completamente nuove, ridando un senso e una pratica alla parola democrazia, vilipesa quand'è vuotamente inflazionata. Le tantissime persone scese in piazza ieri a Roma - molte delle quali si sono sobbarcate un faticoso viaggio - non avevano alcun interesse egoisticamente materiale da rivendicare, ma mille concreti bisogni da praticare. Bisogna ringraziarle e rispettarle per questo, perché lanciano una richiesta di partecipazione che l'attuale sinistra non potrà eludere, pena la sua scomparsa. Non è un confuso insieme di proteste o domande corporative, è la rivelazione di condizioni materiali ed esistenziali che si possono precisamente elencare componendo la realtà concreta della parte più bistrattata e rimossa del paese. Non è una generica richiesta di «unità» delegata a ristretti gruppi dirigenti, è la promessa di un impegno diretto che ha bisogno di luoghi e modalità precise di partecipazione. Se volessimo sintetizzare tutto questo con uno schema oggi in voga, potremmo dire che le nostre primarie le abbiamo iniziate ieri in piazza san Giovanni. Non per innalzare agli altari un leader - cosa che non vorremmo mai veder fare a sinistra - ma per abbattere gli steccati della frammentazione sociale e quelli ancor più ristretti delle appartenenze politiche. Un impegno consapevole - persino un po' preoccupato, per la gravità dei tempi in cui cade - che solo dei gattini ciechi potevano non vedere nella folla di ieri, piena di giovani. Certo, poi c'è il quadro politico, le fragilità di un governo in agonia, l'incubo della destra incombente. Ma - permetteteci di bestemmiare - tutto questo non può immobilizzare, altrimenti la destra tornerà al potere senza che a sinistra ci sia più niente. Nel quadro grigio di questi mesi, l'unico segnale di ottimismo è venuto ieri da una piazza. Sappiamo che non si può manifestare ogni giorno, ma da ieri sappiamo anche che lo spirito e la pratica del 20 ottobre dovranno essere quelle di ogni nostro futuro giorno. di Gabriele Polo (Il Manifesto, 21.10.07)

Nessun commento: