mercoledì 17 ottobre 2007

LA FLESSIBILITA’ E’ NEMICA DEL “LAVORO DECENTE”

di Luciano Gallino La definizione di “lavoro decente” o “dignitoso” è stata proposta diversi anni fa dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro. Nel 1999 si svolse a Ginevra l’assemblea annuale dell’ OIL e il rapporto del Direttore Generale si intitolava appunto Pour un travail décent. In questo rapporto venivano delineate sette forme base di sicurezza economica e sociale che dovrebbero venire assicurate a tutti i lavoratori. La moltiplicazione dei lavori flessibili o atipici tende a diminuire la maggior parte di codeste forme di sicurezza; di conseguenza compromette in varia misura lo statuto del lavoro decente. Mi limiterò a ricordare alcune di esse, con qualche adattamento e un’aggiunta rispetto al testo originale, e notare come ciascuna di essa sia erosa o ridotta a zero dai suddetti lavori. La sicurezza dell’occupazione, che significa non solo protezione contro i licenziamenti abusivi, ovvero senza causa, ma anche stabilità dell’occupazione compatibile con un’economia dinamica.Sicurezza professionale: implica la possibilità di valorizzare la propria professione accrescendo via via le competenze tramite il lavoro, e formandosi una riconoscibile e stabile identità professionale. Sicurezza sui luoghi di lavoro: comprende la protezione contro gli incidenti e le malattie professionali grazie ad un’adeguata regolazione in tema di salute e sicurezza, che preveda anche limiti agli orari e agli straordinari, nonché la riduzione dello stress sul lavoro.Sicurezza del reddito: creazione e mantenimento di un reddito adeguato, in grado di assicurare al lavoratore e ai suoi familiari la copertura dei “costi dell’uomo” a fronte di un dato livello di sviluppo sociale. Sicurezza di rappresentanza. Essa rinvia alla garanzia offerta dalla possibilità di espressione collettiva sul mercato del lavoro grazie a organizzazioni sindacali libere e indipendenti, nonché di altri organismi capaci di rappresentare gli interessi dei lavoratori. Sicurezza previdenziale: possibilità di assicurarsi attraverso il lavoro un reddito che permetta di mantenere, dopo l’uscita dal lavoro, un livello di vita comparabile a quello precedente. Questa forma di sicurezza non compare nell’elenco originale dell’Oil. La moltiplicazione dei lavori flessibili erode una parte notevole delle citate sicurezze. Riduce, per definizione, quella relativa alla stabilità dell’occupazione.
Mentre la formazione e valorizzazione della professionalità e identità lavorativa, come si è già notato, è resa difficile dalla varietà di ambienti lavorativi, esperienze tecniche, modelli di organizzazione del lavoro cui è esposto il lavoratore flessibile. La sicurezza nei luoghi di lavoro – che in questo caso si riferisce alla sicurezza fisica, alla salute – è compromessa dai lavori flessibili, in specie quelli implicanti contratti di breve durata, perché le imprese non hanno alcun incentivo a investire nella formazione alla sicurezza di lavoratori che nel volgere di poche settimane o mesi non saranno più alle loro dipendenze. Quanto ai lavoratori, essi non hanno né il tempo per apprendere i codici della sicurezza nell’impresa dove saranno occupati per breve tempo, né la motivazione a farlo. Un altro aspetto è stato ripetutamente richiamato da ricerche svolte in diversi paesi. Chi lavora con un contratto atipico inclina a ridurre le attenzioni per la propria salute. Pospone, ad esempio, l’opportunità di sottoporsi ad una visita medica alla necessità di essere presente sul posto di lavoro, sperando così di accrescere, o almeno non diminuire, la probabilità di vedersi rinnovato il contratto che sta per scadere. Sottovalutare il proprio stato di stress, o trascurare una visita per recarsi al lavoro, o recarsi al lavoro sebbene indisposti, incide alla lunga sullo stato di salute.
Il lavoro flessibile intacca fortemente la sicurezza e il livello di reddito. Per quanto riguarda le due categorie più ampie di lavoratori atipici, i dipendenti a tempo determinato e i collaboratori coordinati o a progetto, che sono formalmente degli autonomi, le ricerche confermano che essi hanno un reddito netto annuo notevolmente inferiore sia a quello dei dipendenti con un contratto standard, sia a quello dei veri autonomi. La causa principale di simili dislivelli è evidente. I contratti atipici comportano in molti casi, talora per anni di seguito, non i normali 12 mesi di lavoro, o meglio 11 mesi di lavoro più uno di ferie retribuite, più la tredicesima, arrecanti al lavoratore 13 mensilità effettive di retribuzione. Possono voler dire piuttosto 8-9 mesi di lavoro, quindi non più di tanti di retribuzione piena.
Questo accade ovviamente quando chi appartiene a tali categorie vede scadere un contratto a termine, non importa se da dipendente o da collaboratore, e non ne trova un altro se non dopo settimane o mesi. Ma succede anche, con peggiori effetti, per altre categorie di atipici; ad esempio quando uno è assunto a tempo indeterminato da un’impresa utilizzatrice, perché alla retribuzione piena egli avrà diritto soltanto quando si è chiamati da un utilizzatore. Va ricordato infatti che nel decreto attuativo della legge 30 è previsto che le imprese di somministrazione corrispondano il salario intero ed i relativi contributi di legge dovuti quando il lavoratore trova effettiva occupazione presso un utilizzatore, mentre nel periodo tra un’occupazione e l’altra al lavoratore spetta solamente una indennità di disponibilità; divisibile, si noti, in quote orarie, sì da renderla proporzionale ai tempi di constatata inattività.
Nei decreti del Ministero del Lavoro essa è stato indicato, a partire dal 2003, in 350 euro mensili per il lavoro in somministrazione, con incrementi minimi di anno in anno. Nel caso del lavoro intermittente l’indennità scende al 20% del salario medio (corrispondente a circa 250 euro) dei dipendenti dell’utilizzatore. In tutti questi casi i contributi sono corrisposti in proporzione ai periodi effettivamente lavorati. Fatto riguardo a sua volta alla sicurezza della rappresentanza sindacale, a diminuirla drasticamente provvedono, in mutevoli combinazioni, vari fattori connessi alla flessibilità del lavoro: la mobilità dei lavoratori flessibili da un posto all’altro; la separazione del lavoratore dall’impresa in cui presta la sua attività, che è insita nel lavoro in affitto o in somministrazione; la individualizzazione dei rapporti di lavoro promossa dalle riforme del mercato del lavoro; i trasferimenti di rami d’azienda da una regione all’altra oppure all’estero.
In parallelo alla riduzione delle sicurezze attinenti all’occupazione, al reddito e all’ammontare dei relativi contributi, si riduce inevitabilmente anche la sicurezza previdenziale. Secondo calcoli recenti, chi ha cominciato a lavorare con contratti di collaborazione coordinata e continuativa fin dal momento della moltiplicazione di questi, verso la metà degli anni ‘90, quando avrà raggiunto i 60 anni e al tempo stesso – caso assai improbabile – 35 annualità contributive piene, potrà contare al massimo su pensioni corrispondenti al 37% della sua retribuzione, che è in media assai più bassa di quella dei lavoratori dipendenti.L’elenco delle sicurezze relative a occupazione, reddito, rappresentanza sindacale e altro elaborato dall’Oil non rappresenta semplicemente una sorta di carta dei diritti morali dei lavoratori.
Infatti la stessa Oil attraverso un suo programma specifico ha avviato delle ricerche in numerose imprese della Ue e di altri paesi. A tale fine le suddette sicurezze sono state “operazionalizzate”, ossia trasformate in parametri misurabili, che si possono applicare sia a livello di impresa, sia a livello nazionale. Si comincia pertanto a disporre di basi di dati globali sulle varie forme di sicurezza che distinguono, in misura variabile, il lavoro decente da quello che non può dirsi tale. Sarebbe il caso di farne maggior uso anche in Italia.

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